Pier Paolo Pasolini nasce a
Bologna nel 1922 da Carlo Alberto,
ufficiale di carriera, e Susanna
Colussi, maestra. Seguendo le
destinazioni del padre, abita a Parma,
Belluno, Cremona, Scandiano, Bologna,
dove frequenta il Liceo e si laurea in
Lettere con una tesi su Pascoli. Ma la
patria del cuore (Heimat) è
Casarsa del Friuli, paese della madre:
qui trascorre le vacanze estive e vive
stabilmente dal 1942 al ’49, mentre nel
farsi adulto il venire alla luce
dell’omosessualità si intreccia con la
fascinazione del mondo contadino (da cui
l’attenzione al rapporto
lingua-dialetto, friulano prima,
romanesco poi). Ventenne, crede
fermamente che «gli unici grandi
educatori dell’umanità sono i
poeti». Le due vocazioni associate,
la poetica e la pedagogica, sono
precocemente produttive: da una parte
Poesie a Casarsa (1942, prontamente
apprezzato da Contini) e le prose
autobiografiche Atti impuri e
Amado mio (pubblicate postume,
1982); dall’altra la scuola domestica
attivata con la madre per i figli dei
contadini. Apolitico per natura, la
caduta del fascismo gli accende un
nuovissimo entusiasmo civile. Arruolato
poco prima dell’armistizio, riesce a
tornare a Casarsa: l’opzione ideale per
la Resistenza è immediata, ma
diversamente dai coetanei Calvino,
Fenoglio, Meneghello, non sceglie la
lotta armata («Poi ci fu la Resistenza/
e io/ lottai con le armi della poesia»).
Partigiano è invece il fratello
diciannovenne Guido, che muore
tragicamente in uno scontro tra la sua
Brigata Osoppo e i garibaldini
comunisti. Ciò nonostante, Pasolini è
comunista, impegnato nella campagna
elettorale del ‘48, nel ‘49 segretario
della sezione Pci di San Giovanni.
Denunciato per corruzione di minorenni e
atti osceni in luogo pubblico, è espulso
dal partito e rimosso dall’insegnamento.
Nel 1950 “fugge” dal Friuli con la madre
e sceglie Roma (dove «si vive ancora tra
i palmizi, come a Bandung»): città
letteraria ma senza case editrici
importanti, senza industrie ma col
cinema. Gli si spalancano le “vaste
praterie” delle borgate romane:
Primavalle, Quarticciolo, Tiburtino,
Pietralata. Pasolini le percorre
instancabilmente, con «disperata
vitalità» e passione per i ragazzi,
erotica e poetica a un tempo. Ne diventa
il cantore, prima in parole e poi in
immagini: il romanzo Ragazzi di vita
esce nel ‘55, Una vita violenta
nel ‘59. La lettura di Gramsci lo
stimola a miscelare la lezione della
stilistica con la sociologia. Nella
raccolta di versi Le ceneri di
Gramsci (‘57), canta «la fine del
decennio in cui ci appare/ tra le
macerie finito il profondo/ e ingenuo
sforzo di rifare la vita». È già fine
della Storia, e l’inizio di un lungo,
combattuto disincanto. Ma la vita com’è,
quella continua: Pasolini sceglie il
cinema, avendo alle spalle la sola
esperienza di sceneggiatore. Il poeta,
il romanziere, il critico confluiscono
nel regista. Nel 1961 esce Accattone,
e poi Mamma Roma, La ricotta,
Il Vangelo secondo Matteo,
Uccellacci e Uccellini, e ancora
Edipo re, Teorema… fino al
Salò-Sade: tra il ‘61 e il ‘75
praticamente un film all’anno. Il cinema
lo rende famoso e ne esalta la vocazione
di leader, già testimoniata da amici
liceali e poi dai coetanei sodali
bolognesi nella rivista “Officina”
(1955-59). Chiamato da Piero Ottone nel
‘73 a scrivere in prima pagina sul
“Corriere della Sera”, sa trovare lo
stile che parla a un pubblico ben più
vasto, mentre recensisce libri sul
settimanale “Tempo”. Scritti corsari
(‘75), Lettere luterane (‘76),
Descrizioni di descrizioni (‘79)
raccolgono quegli interventi.
Pasolini arriva all’appuntamento
continuando a praticare la poesia (del
‘61 è La religione del mio tempo,
del ‘64 Poesia in forma di rosa,
Trasumanar e organizzar del ‘71),
ma anche attraverso un intenso impegno
giornalistico. Negli anni tra la “grande
trasformazione” e il Sessantotto (che lo
attira inesorabilmente, ma con una
pregiudiziale riserva sulla «nuova
gioventù», prodotto del “boom”), tiene
sui settimanali “Vie Nuove” (1960-65) e
“Tempo” (‘68-70) una vivace e
spregiudicata corrispondenza coi lettori
(ora in I dialoghi, Editori
Riuniti, 1992). Affina la sua «astuzia
socratica», come ha scritto A.
Berardinelli, in vista di quella
«saggistica politica d’emergenza che è
la vera invenzione letteraria degli
ultimi anni». Il Pasolini che inchioda
il potere, sa che l’Italia non è solo il
Palazzo, «è un Paese ridicolo e
sinistro: i suoi potenti sono delle
maschere comiche, vagamente imbrattate
di sangue: “contaminazioni” tra Molière
e il Grand Guignol. Ma i cittadini
italiani non sono da meno»:
antropologicamente mutati, vittime
consenzienti del “genocidio culturale” e
dell’idolatria delle merci indotti dalla
televisione. Il Pasolini “corsaro” degli
ultimi anni descrive processi già
studiati da Horkheimer e Adorno, Marcuse,
Fortini, Barthes. Ma la sua originalità
sta nel cogliere la violenza concentrata
e improvvisa del loro compiersi in
Italia, nel viverli come una
irrimediabile lacerazione personale,
nella comunicazione diretta, spoglia di
ogni orpello culturalistico. Pasolini
muore la notte del 2 novembre 1975
all’Idroscalo di Ostia, assassinato da
un “ragazzo di vita”, verosimilmente col
concorso di altri.
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