la tessera 2015 dedicata a Pier Paolo Pasolini

 

 


 

Pier Paolo Pasolini nasce a Bologna nel 1922 da Carlo Alberto, ufficiale di carriera, e Susanna Colussi, maestra. Seguendo le destinazioni del padre, abita a Parma, Belluno, Cremona, Scandiano, Bologna, dove frequenta il Liceo e si laurea in Lettere con una tesi su Pascoli. Ma la patria del cuore (Heimat) è Casarsa del Friuli, paese della madre: qui trascorre le vacanze estive e vive stabilmente dal 1942 al ’49, mentre nel farsi adulto il venire alla luce dell’omosessualità si intreccia con la fascinazione del mondo contadino (da cui l’attenzione al rapporto lingua-dialetto, friulano prima, romanesco poi). Ventenne, crede fermamente che «gli unici grandi educatori dell’umanità sono i poeti». Le due vocazioni associate, la poetica e la pedagogica, sono precocemente produttive: da una parte Poesie a Casarsa (1942, prontamente apprezzato da Contini) e le prose autobiografiche Atti impuri e Amado mio (pubblicate postume, 1982); dall’altra la scuola domestica attivata con la madre per i figli dei contadini. Apolitico per natura, la caduta del fascismo gli accende un nuovissimo entusiasmo civile. Arruolato poco prima dell’armistizio, riesce a tornare a Casarsa: l’opzione ideale per la Resistenza è immediata, ma diversamente dai coetanei Calvino, Fenoglio, Meneghello, non sceglie la lotta armata («Poi ci fu la Resistenza/ e io/ lottai con le armi della poesia»). Partigiano è invece il fratello diciannovenne Guido, che muore tragicamente in uno scontro tra la sua Brigata Osoppo e i garibaldini comunisti. Ciò nonostante, Pasolini è comunista, impegnato nella campagna elettorale del ‘48, nel ‘49 segretario della sezione Pci di San Giovanni. Denunciato per corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico, è espulso dal partito e rimosso dall’insegnamento.

Nel 1950 “fugge” dal Friuli con la madre e sceglie Roma (dove «si vive ancora tra i palmizi, come a Bandung»): città letteraria ma senza case editrici importanti, senza industrie ma col cinema. Gli si spalancano le “vaste praterie” delle borgate romane: Primavalle, Quarticciolo, Tiburtino, Pietralata. Pasolini le percorre instancabilmente, con «disperata vitalità» e passione per i ragazzi, erotica e poetica a un tempo. Ne diventa il cantore, prima in parole e poi in immagini: il romanzo Ragazzi di vita esce nel ‘55, Una vita violenta nel ‘59. La lettura di Gramsci lo stimola a miscelare la lezione della stilistica con la sociologia. Nella raccolta di versi Le ceneri di Gramsci (‘57), canta «la fine del decennio in cui ci appare/ tra le macerie finito il profondo/ e ingenuo sforzo di rifare la vita». È già fine della Storia, e l’inizio di un lungo, combattuto disincanto. Ma la vita com’è, quella continua: Pasolini sceglie il cinema, avendo alle spalle la sola esperienza di sceneggiatore. Il poeta, il romanziere, il critico confluiscono nel regista. Nel 1961 esce Accattone, e poi Mamma Roma, La ricotta, Il Vangelo secondo Matteo, Uccellacci e Uccellini, e ancora Edipo re, Teorema… fino al Salò-Sade: tra il ‘61 e il ‘75 praticamente un film all’anno. Il cinema lo rende famoso e ne esalta la vocazione di leader, già testimoniata da amici liceali e poi dai coetanei sodali bolognesi nella rivista “Officina” (1955-59). Chiamato da Piero Ottone nel ‘73 a scrivere in prima pagina sul “Corriere della Sera”, sa trovare lo stile che parla a un pubblico ben più vasto, mentre recensisce libri sul settimanale “Tempo”. Scritti corsari (‘75), Lettere luterane (‘76), Descrizioni di descrizioni (‘79) raccolgono quegli interventi.

Pasolini arriva all’appuntamento continuando a praticare la poesia (del ‘61 è La religione del mio tempo, del ‘64 Poesia in forma di rosa, Trasumanar e organizzar del ‘71), ma anche attraverso un intenso impegno giornalistico. Negli anni tra la “grande trasformazione” e il Sessantotto (che lo attira inesorabilmente, ma con una pregiudiziale riserva sulla «nuova gioventù», prodotto del “boom”), tiene sui settimanali “Vie Nuove” (1960-65) e “Tempo” (‘68-70) una vivace e spregiudicata corrispondenza coi lettori (ora in I dialoghi, Editori Riuniti, 1992). Affina la sua «astuzia socratica», come ha scritto A. Berardinelli, in vista di quella «saggistica politica d’emergenza che è la vera invenzione letteraria degli ultimi anni». Il Pasolini che inchioda il potere, sa che l’Italia non è solo il Palazzo, «è un Paese ridicolo e sinistro: i suoi potenti sono delle maschere comiche, vagamente imbrattate di sangue: “contaminazioni” tra Molière e il Grand Guignol. Ma i cittadini italiani non sono da meno»: antropologicamente mutati, vittime consenzienti del “genocidio culturale” e dell’idolatria delle merci indotti dalla televisione. Il Pasolini “corsaro” degli ultimi anni descrive processi già studiati da Horkheimer e Adorno, Marcuse, Fortini, Barthes. Ma la sua originalità sta nel cogliere la violenza concentrata e improvvisa del loro compiersi in Italia, nel viverli come una irrimediabile lacerazione personale, nella comunicazione diretta, spoglia di ogni orpello culturalistico. Pasolini muore la notte del 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia, assassinato da un “ragazzo di vita”, verosimilmente col concorso di altri.

 


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