Giacomo
Matteotti, secondo di
sette figli (quattro dei quali morti di tisi in
tenera età), nasce a Fratta Polesine nel 1885.
Il nonno era stato calderaio. Il padre, tra
l’altro consigliere comunale socialista,
sviluppa un fiorente commercio di ferro e rame,
raggiungendo una solida posizione economica, che
gli consente di far studiare i figli. Giacomo si
laurea in Giurisprudenza a Bologna nel 1907 e
ben presto si avvicina alla politica, nel solco
paterno. Il giovane Matteotti è in prima fila
nel sostenere le lotte bracciantili e apprezzato
amministratore locale. Convinto antimilitarista,
si schiera contro la guerra di Libia. Durante la
Grande guerra, in cui non viene arruolato in
quanto unico figlio superstite di madre vedova,
è attivamente neutralista e perciò condannato a
tre anni di confino presso Messina. Nel 1916
sposa col solo rito civile la poetessa Velia
Titta e nel ‘18 nasce a Roma il figlio Giancarlo
(cui seguiranno Matteo e Isabella).
Nel dopoguerra
emerge come una delle personalità rilevanti del
socialismo riformista italiano, da subito tra i
più lucidi e decisi oppositori del nascente
fascismo. Eletto deputato di Ferrara-Rovigo nel
‘19 e nel ‘21, ben prima della marcia su Roma
denuncia lo squadrismo finanziato dagli agrari
nell’Inchiesta socialista sulle gesta dei
fascisti in Italia. Dalla fine del 1922 è
segretario del Partito socialista unitario, che
riunisce i riformisti allontanati dalla
maggioranza massimalista del Psi, da cui già si
era staccato nel gennaio del 1921 il Partito
Comunista d’Italia. Nel 1923 pubblica Un anno
di dominazione fascista. Nel luglio dello
stesso anno, durante il primo governo Mussolini
(voluto da re, agrari e industriali, sostenuto
da nazionalisti e ampi settori liberali),
l’antifascista Don Sturzo, su pressione del
Vaticano, si dimette da segretario del Partito
popolare: ne segue presto la benevola astensione
dei deputati del Ppi sulla nuova legge
elettorale Acerbo (a cui Sturzo si era sempre
opposto), che elimina il proporzionale e
assicura, a chi raggiunga il 25% dei votanti, il
65% degli eletti.
Matteotti
esprime la sua profonda preoccupazione in una
lettera a Turati precedente le elezioni del
1924: «È necessario prendere, rispetto alla
dittatura fascista, un atteggiamento diverso da
quello tenuto fin qui; la nostra resistenza al
regime dell'arbitrio deve essere più attiva, non
bisogna cedere su nessun punto (...) Nessuno può
lusingarsi che il fascismo dominante deponga le
armi e restituisca spontaneamente all'Italia un
regime di legalità e libertà». I risultati
del 6 aprile consegnano al listone di Mussolini
la grande maggioranza dei seggi alla Camera,dopo
una campagna elettorale caratterizzata da
intimidazioni, violenze, brogli, che Matteotti,
rieletto per la terza volta, denuncia con grande
fermezza nella seduta del 30 maggio. «Contestiamo
in questo luogo e in tronco la validità delle
elezioni», dice Matteotti. E rivolto ai
vocianti parlamentari fascisti: «Per vostra
stessa conferma nessun elettore italiano si è
trovato libero di decidere con la sua volontà...
Vi è una milizia armata, composta di cittadini
di un solo Partito, la quale ha il compito
dichiarato di sostenere un determinato Governo
con la forza». Al termine si rivolge ai
compagni di partito: «Io,
il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il
discorso funebre per me».
Il 10 giugno Matteotti è rapito e brutalmente
assassinato da un gruppo di squadristi,
direttamente collegati ad alti gerarchi del
fascismo. Seppellito in un bosco nelle vicinanze
di Roma, viene ritrovato due mesi dopo.
Nonostante l’ondata di sdegno, che coinvolge
anche strati moderati e conservatori, le forze
antifasciste si dimostrano incapaci e divise.
Mussolini, ricevuta la fiducia al Senato il 25
giugno (col voto favorevole dei liberali,
proposto da Croce), approfitta della scelta
delle opposizioni di disertare la Camera
(“Aventino”) per varare i decreti contro la
libertà di stampa, giungendo più forte che mai
alla seduta del 3 gennaio 1925, nella quale così
si esprime: «Dichiaro
qui, al cospetto di questa Assemblea e al
cospetto di tutto il popolo italiano, che io
assumo, io solo, la responsabilità politica,
morale, storica di tutto quanto è avvenuto. (…)
Se il fascismo è stato una associazione a
delinquere, io sono il capo di questa
associazione a delinquere».
Piero Gobetti
fu tra i pochi a cogliere subito che il fascismo
aveva individuato «in Matteotti l’avversario
vero, l’oppositore più intelligente e più
irreducibile tra i socialisti unitari, il più
giovane d’anni e d’animo. (…) Nulla di fortuito
dunque nel suo assassinio». Nello stesso
articolo (17 giugno 1924), ne descrive le
qualità essenziali in questi termini: assenza
di ogni demagogia, competenza in materia
economica, capacità organizzativa, energia,
determinazione. Ben più pericolosa di tanti
proclami massimalistici e rivoluzionari si era
rivelata per il fascismo l’assoluta
intransigenza del riformista Matteotti.
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