Elsa Morante
nasce a Roma nel 1912 e trascorre la sua
infanzia nel popolare quartiere di
Testaccio. Sostanzialmente autodidatta,
sin da ragazzina ama scrivere fiabe e
poesiole, che illustra con propri
disegni. Negli anni Trenta collabora a
varie riviste con note di costume e nel
1941 sposa Alberto Moravia. Si impone
all’attenzione generale con il romanzo
Menzogna e sortilegio, del 1948,
a cui segue nel 1957 L’isola di
Arturo. Grandi critici cominciano ad
occuparsi della sua opera, da Giacomo
Debenedetti a Cesare Garboli a György
Lukács, che la giudica «uno dei massimi
talenti di scrittore che io conosca».
Dopo la raccolta di versi Alibi
(1958) e i racconti dello Scialle
andaluso
(1963), nel 1968 pubblica Il mondo
salvato dai ragazzini, una sorta di
manifesto politico costruito con
modalità espressive insolite e
diversificate. Nel 1974 esce La
Storia: il romanzo ottiene un grande
successo di pubblico e provoca un
serrato dibattito estetico e politico,
non solo tra addetti ai lavori. Nel 1982
pubblica Aracoeli, l’ultimo romanzo. La
Morante trascorre i restanti anni della
sua vita in una clinica romana, dove
muore alla fine del 1985. Nel 1987 sono
raccolti in volume Pro o contro la
bomba atomica, da una conferenza con
questo titolo del 1965) i suoi più
importanti scritti saggistici.
Devo avvertirvi subito che nel mio
vocabolario abituale, lo scrittore è il
contrario del letterato. Anzi, una delle
possibili definizioni giuste di
scrittore, per me sarebbe addirittura la
seguente: un uomo a cui sta a cuore
tutto quanto accade, fuorché la
letteratura. (1965)
Si direbbe che
l’umanità contemporanea prova la occulta
tentazione di disintegrarsi. (1965)
Infine, le famose bombe, queste orchesse
balene che se ne stanno a dormire nei
quartieri meglio riparati dell’America,
dell’Asia e dell’Europa: riguardate,
custodite e mantenute nell’ozio come
fossero un harem: dai totalitari, dai
democratici e da tutti quanti; esse, il
nostro tesoro atomico mondiale, non sono
la causa potenziale della
disintegrazione, ma la manifestazione
necessaria di questo disastro, già
attivo nella coscienza. (1965)
In una folla soggetta
a un imbroglio, la presenza anche di uno
solo che non si lascia imbrogliare, può
fornire già un primo punto di vantaggio.
Ma il punto, poi, si moltiplica per
mille e per centomila se quell’uno è uno
scrittore (s’intende un poeta). Anche
senza accorgersene, per necessità del
suo istinto, il poeta è destinato a
smascherare gli imbrogli. E una poesia,
una volta partita, non si ferma più; ma
corre e si moltiplica, arrivando da
tutte le parti, fin dove il poeta stesso
non se lo sarebbe aspettato. (1965)
In mancanza di
compagni o di seguaci, di ascoltatori o
di spettatori, lo spirito libero è
tenuto alla sua lunga marcia lo stesso,
anche solo di fronte a se stesso e
dunque a Dio. Niente va perduto (v. il
granello di senape e il pizzico di
lievito); e in conseguenza, chiunque
schiavizza, sotto qualsiasi pretesto, il
proprio spirito, si fa agente con questo
del disonore dell’uomo. Doppiamente
disgraziato è chi si adopera a
diffondere il contagio fra gli altri e
tanto più miserabile se lo fa in vista o
per il gusto di un proprio potere
personale. Servirsi a fini di potere
degli sfruttati (anche solo del loro
nome) è la peggiore forma di
sfruttamento possibile. Proclamare il
proprio amore per gli operai può
riuscire un comodo alibi per chi non ama
nessun operaio, e nessun uomo. (1970 o
71)
Nella edizione
originale italiana, questo romanzo,
sotto il suo titolo La Storia,
porta il seguente sottotitolo: Uno
scandalo che dura da diecimila anni.
(…) Si tratta di una ovvietà. A scorrere
qualsiasi sommario di Storia universale,
si scopre subito che la sterminata
vicenda umana, pur nei suoi sommovimenti
e disuguaglianze, presenta un paesaggio
di ossessiva monotonia. La storiografia,
per quanto esplori, ritrova dovunque lo
stesso scandalo incessante. A distanza o
da vicino, ogni società umana si rivela
un campo straziato, dove una squadra
esercita la violenza e una folla la
subisce. Ma il fatto che questo male sia
sempre esistito non è motivo che gli dia
il diritto di esistere. (1977)
Confesso che dato
l’uso che ne è stato fatto nella storia
fino a tutt’oggi, mi ripugna ormai di
ripetere la parola rivoluzione (e
fin di pronunciarla). Però questa
parola, per quanto stuprata e tradita,
in se stessa mantiene il suo significato
primo e autentico: di grande azione
popolare al fine di instaurare una
società più degna. Ora, su questa chiara
definizione, sono state sventolate
troppe bandiere equivoche. E il primo
equivoco è stato di scrivere, su queste
bandiere, il motto nazionale: Il fine
giustifica i mezzi. Questo principio
(non per niente sventolato da Benito
Mussolini e dai suoi simili per le loro
‘rivoluzioni’) è sicura insegna di
falsità. Anzi la verità sta nel suo
rovescio: I mezzi denunciano il fine.
(1978) |