Piero Gobetti nasce a
Torino nel 1901. I genitori gestiscono
una piccola drogheria, i nonni erano
contadini. Ingegno precocissimo, ottimi
studi, si laurea con una tesi sulla
filosofia politica di Alfieri. Ancora
liceale aveva diretto la rivista
Energie Nove, interrotta per dar
vita a La Rivoluzione Liberale
(1922-25), in cui si riconobbero molti
giovani (Carlo Levi, Giacomo Debenedetti,
Ernesto Rossi, Camillo Berneri, Carlo
Rosselli, Riccardo Bauer, Natalino
Sapegno, Eugenio Montale, Adriano
Olivetti, Lelio Basso ecc.), riscuotendo
anche la stima e la solidarietà di
politici e studiosi più che affermati (Salvemini
e Croce, Pareto, Amendola, Einaudi,
Salvatorelli, Prezzolini ecc.). Accanto
alla rivista, la casa editrice, che
inalbera il motto greco e alfieriano:
“Che ho a che fare con gli schiavi?” Con
la vocazione pedagogica, Gobetti aveva
“la virtù tutta sua di attrarre gli
spiriti più diversi e ottenere da loro
il lavoro a cui fossero portati, traendo
da ciascuno quel che poteva dare di
meglio” (Mario Fubini). E ancora, un
fervore organizzativo e una capacità di
lavoro straordinari. Da suoi appunti
pubblicati postumi: “Ho in mente una mia
figura ideale di editore. Mi ci consolo,
la sera dei giorni più tumultuosi… dopo
aver scritto 10 lettere e 20 cartoline,
rivedute le terze bozze del libro di
Tilgher o di Nitti, preparati gli
annunci editoriali per il libraio, la
circolare per il pubblico, le inserzioni
per le riviste, litigato col proto che
mi ha messo un errore nuovo dopo 3
correzioni, mandato via rassegnato dopo
40 minuti di discussione il tipografo
che chiedeva 10 lire di aumento per
foglio, senza concederglielo; aiutato il
facchino a scaricare le casse di libri
quando ci sono solo più io ad
aspettarlo, schiodata io stesso la prima
cassa per vedere i primi esemplari e
soffrire io solo del foglio che è
sbiancato in una copia, e consolarmi che
tutto il resto va bene… ricevute 20
telefonate, 10 facce nuove che vengono
con le proposte più bislacche… e bisogna
sentire, scrutarle, scegliere il giovane
da aiutare e il presuntuoso da mettere
subito alla porta”. Giuseppe Gangale lo
ricorda “che veniva qui a Roma in terza
classe, frettoloso, arruffato, con la
grossa valigia carica dei suoi libri e
dei suoi giornali che egli stesso
distribuiva ai librai e collocava dai
giornalai”. Nel 1923 sposa Ada Prospero,
conosciuta negli anni di liceo, fedele
compagna, ispiratrice, collaboratrice,
che ne continuerà le battaglie, facendo
della sua casa una scuola di
antifascismo, fino alla Resistenza (di
cui lascerà testimonianza in Diario
partigiano, 1956). Nel 1925 nasce il
loro figlio Paolo.
Poco più che adolescente, Gobetti aveva
salutato con entusiasmo la rivoluzione
russa, i consigli di fabbrica e
l’occupazione della Fiat (1920): “Qui
siamo in piena rivoluzione. Io seguo con
simpatia gli sforzi degli operai che
costruiscono un ordine nuovo. Non sento
in me la forza di seguirli nell’opera
loro, almeno per ora. Ma mi pare di
vedere che a poco a poco si chiarisca e
si imposti la più grande battaglia del
secolo. Allora il mio posto sarà dalla
parte di chi ha più religiosità e
spirito di sacrificio”. Collabora a
L’Ordine Nuovo, con interventi
politici e soprattutto come critico
teatrale, senza alcuna concessione
divulgativa, rivolgendosi cioè al
lettore operaio come a un intellettuale.
Dirà di lui Gramsci: “Piero Gobetti non
era un comunista e probabilmente non lo
sarebbe mai diventato, ma aveva capito
la posizione sociale e storica del
proletariato… Egli scavò una trincea
oltre la quale non arretrarono quei
gruppi di intellettuali più onesti e
sinceri che nel 1919-20 sentirono che il
proletariato come classe dirigente
sarebbe stato superiore alla borghesia”.
Del fascismo capisce subito il
tatticismo opportunistico e il quasi
fatale successo: “Né Mussolini né
Vittorio Emanuele hanno virtù di
padroni, ma gli italiani hanno bene
animo di schiavi”. Il fascismo è
“l’autobiografia della nazione”. Prevede
lucidamente che è destinato a durare, ma
non per questo rinuncia a un’opposizione
sempre più intransigente. Il compito è
“salvare il futuro” delle giovani
generazioni. Il suo antifascismo, prima
ancora che scelta politica, è qualcosa
di “fisiologicamente innato”, un’“irreducibile
questione di principio”, di “istinto”,
di “dignità”, di “stile”. Pochi giorni
dopo la formazione del primo governo
Mussolini, scrive: “Dobbiamo subire le
persecuzioni che ci spettano”. Ciò che
avviene puntualmente, con perquisizioni,
sequestri, fino alla selvaggia
aggressione del settembre ‘24 (tre mesi
prima un telegramma del Duce ordinava al
Prefetto di Torino: “rendere nuovamente
difficile vita questo insulso oppositore
governo e fascismo”). Soppressa La
Rivoluzione Liberale, fonda Il
Baretti, d’indirizzo più letterario,
a cui collaboreranno giovanissimi Leone
Ginzburg e Massimo Mila. Deciso a
continuare la sua attività di scrittore
e editore, che gli è inibita in patria,
Gobetti va esule a Parigi, dove muore il
15 febbraio 1926.
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