chi siamo

           


 

Documento fondativo

 

Chi siamo, a chi ci rivolgiamo. Siamo persone di diversa età e formazione, con alle spalle esperienze politico-culturali nell’ambito della sinistra non solo locale. Ci rivolgiamo a quanti, come noi, sentono l’esigenza di non separare l’iniziativa politica dall’analisi critica della realtà, da sottoporre a libera discussione. Ciò dovrebbe avvenire normalmente, senza preliminari dichiarazioni di appartenenza, senza deleghe in bianco. Nelle sedi della politica, vecchie e nuove, le cose vanno diversamente: il confronto è condizionato dagli interessi di singoli o gruppi, le decisioni non sono trasparenti ma nelle mani di pochi e spesso opache, la responsabilità personale non è esercitata e in luogo di essa regna la delega. Dove si ricerca e ci si confronta non si decide, dove si decide non si discute, se non in termini non pubblicamente sostenibili. Ciò ha una ricaduta negativa nelle istituzioni anche locali e ostacola le buone pratiche amministrative.

Globalizzazione e sradicamento. Tra spinte incontrollabili verso la globalizzazione e radicato timore di ogni cambiamento, ciò che emerge è la guerra di tutti contro tutti. Essa è sotto i nostri occhi e ci attraversa come individui. I riferimenti ideali e politici, che avevano orientato le nostre società nei due secoli scorsi, negli ultimi decenni si sono offuscati fino a scomparire. L’unico orizzonte di fatto proposto oggi è quello edonistico-consumista. La produzione di ricchezza cresce indiscriminatamente minacciando l’equilibrio ecologico, si ridistribuisce nel mondo in modo drammaticamente ineguale, non risolve il problema della povertà materiale del Sud, produce precarizzazione e impoverimento morale nel Nord. Ci viene a mancare la terra sotto i piedi, in duplice senso… D’altra parte, la tensione all’impegno politico-sociale, pur debole, e l’esigenza di profilo internazionale della riflessione critica sono radicalmente deluse dalla politica corrente.

Politica-spettacolo. Ventiquattr’ore su ventiquattro siamo inebetiti dalla spettacolare offerta di merci di ogni tipo. Anche la politica è sempre più intrecciata con l’industria dell’informazione e dello spettacolo. Più che agìta, è recitata, sulle colonne dei giornali o dagli schermi televisivi: nella forma “salotto” o “teatro di strada”, fa politica chi comunica la politica. Ma quanto maggiore è la merce spettacolare da cui siamo sommersi, tanto minore è la nostra partecipazione attiva: non siamo che  spettatori / consumatori. Più circola informazione politica virtuale, più crescono disinformazione ed estraneità reali. I politici appaiono individui autoreferenziali, dotati di un gergo proprio, impegnati a mantenere e riprodurre la rispettiva quota di potere. L’agire politico si presenta come pratica per pochi, di fronte alla quale una larga maggioranza di persone non si sente all’altezza. La politica sembra un Giano bifronte: a scadenze regolari chiama insistentemente tutti alla partecipazione, ma solo per rinnovare la delega di pochi. Il dibattito politico-culturale e l’agenda pubblica dei problemi, locali o mondiali, sembrano surreali proprio per l’impersonalità di chi li gestisce.


Marketing, politica e società. L’attuale politica corrente (non è sempre stato così) si spiega come marketing e soddisfazione del cliente-elettore: crea la domanda, mette a punto l’offerta, seleziona il suo personale tra venditori e piazzisti. Venditori di che? Di tutto, non ha particolare importanza. Riforma delle pensioni e/o pace subito, legge elettorale o cunei fiscali, difesa dell’ambiente o difesa dall’Islam, Resistenza e liberalizzazioni: sono intercambiabili e comunque vendibili. La politica (nel senso più utilizzato del termine), così ridotta a mercato, è anch’essa luogo di solitudine, appena camuffata da diversi marchi di appartenenza e dalla condivisione di comuni status-symbol. Non si può dire quello che si pensa e non si può fare quello che si dice, se non serve a vincere le prossime elezioni e a gestire il potere. D’altra parte, un tale stato della politica riflette ampiamente l’attuale degrado della società italiana, in cui sempre più  i vizi privati si trasformano in pubbliche virtù: incompetenza, sciatteria, improvvisazione, incuria si accompagnano a diffusa arroganza; resistenze corporative si ammantano di pretese ideali; alla difesa dei diritti quasi mai segue il rispetto dei doveri; fregare il prossimo è indice di capacità e oggetto di pubblico riconoscimento.

Quest’Italia. L’Italia berlusconiana, che affonda le sue radici nella deregulation materiale e ideale degli anni Ottanta, è appunto la pretesa di legittimare pubblicamente ciò che è incompatibile con un’etica collettiva. Quanto avveniva anche prima, ma di nascosto e vergognandosene, assurge alla dignità di proposta di governo: il paese dei “furbetti” si riconosce per quello che è e si piace così. La forza del berlusconismo – non va sottovalutato – è uscita confermata da tutte le scadenze elettorali dal ’94 ad oggi. Esso poggia da una parte sull’incapacità della politica tradizionale di rinnovarsi realmente nella trasparenza delle decisioni e correttezza dei comportamenti, dall’altra sulla sua pervasività. Si può forse ipotizzare, con un po’ di ottimismo, il declino prossimo del berlusconismo come fenomeno strettamente politico-elettorale, ma resta tutto da affrontare il problema dell’incultura politica e civile che lo ha prodotto e accompagnato: essa si è vieppiù ramificata ed ha radici profonde, tali da sovrapporsi, quasi, alla storia di questo paese.

Un’incultura diffusa. L’idea che ad ogni livello il potere sia da concentrare nelle mani di un leader unico, l’estrema personalizzazione, la sovraesposizione mediatica, un malcelato fastidio delle assemblee elettive e dei tempi della democrazia, la centralità della logica imprenditoriale rispetto ad ogni altra cultura del lavoro, l’efficientismo aziendalistico da trasporre pari-pari nella amministrazione degli enti pubblici, l’equivalenza tra formazione politica e tecniche comunicative: tutto ciò caratterizza oggi la cultura diffusa del centro-sinistra quanto quella del centro-destra, la politica locale non meno di quella nazionale. Anche a Piacenza, l’aver di fatto eluso i complessi problemi sopra sommariamente richiamati, confidando ottimisticamente nelle possibilità salvifiche di una società civile “sana” e totalmente altra da una politica “corrotta”, ha in parte vanificato le effettive spinte di intelligente partecipazione provenienti dal basso, a partire già dagli anni Ottanta, soprattutto sui temi urbanistici e ambientali. Siamo oggi in un guado, e non possiamo sperare di cavarcela semplicemente condannando il vecchio e invocando il nuovo.

Una politica possibile. Merci e rifiuti si accumulano a dismisura in sempre meno spazio; civiltà diverse non riescono a impedire che un problematico ma possibile incontro degeneri in scontro aperto, a volte feroce; con fatica miliardi di uomini sopravvivono ogni giorno senza godere di alcun diritto; dove i diritti sono stati conquistati, entrano spesso in reciproco conflitto: se di quest’ordine è l’agenda dei problemi di chi ambisca a governare il presente, ne segue che il mondo globale esige ad ogni livello non meno politica, ma più politica. A due condizioni: che essa sappia sottrarsi all’assorbimento nel meccanismo industrial-spettacolare; che non si riduca al riposizionamento nei diversi scacchieri politico-elettorali nostrani. Se è la nascita del Partito democratico a far decollare Sinistra europea, allora può succedere che una mossa di Casini faccia ricominciare da capo tutta la partita. Il dibattito sui nomi e sullo spazio politico-elettorale non può sostituire l’analisi critica della realtà e il confronto sui valori. Tradizioni culturali e blocchi sociali, influenzandosi a vicenda, hanno materialmente costituito l’Europa degli ultimi decenni, a partire da un certo equilibrio nel rapporto tra individuo e società: da qui deve ripartire la riflessione politica e sulla sua crisi.

Individuo e società, politica e cultura. Dal pensiero greco antico al Cristianesimo (non è forse inutile ricordare che égalité e fraternità sono prima cristiane che democratico-rivoluzionarie, e non discendono dalla liberté, ma la fondano), da Machiavelli a Spinoza, da Smith a Marx e alla sociologia novecentesca, il nesso individuo-società è alla base della civiltà occidentale. Noi pensiamo che tale nesso debba continuare a chiamarsi propriamente politica, e che il riannodarlo non possa prescindere da un proficuo e costante rapporto con le tradizioni culturali. Su di essa poggia del resto anche la modernità, la sua originaria tendenza all’internazionalizzazione, la possibilità di decifrarne la crisi in atto. Lo spaesamento ci impone di tornare a un impegno culturale di lunga lena, per interrogare il passato e l’altrove, e soprattutto lasciarsi interrogare. La “traduzione” del quotidiano in una lingua compatibile con i lontani imperativi pratici e le aspirazioni, cui non sappiamo e non vogliamo rinunciare, comporta un nuovo e diverso impegno politico. Esso si può esplicitare sul piano locale anche attraverso l’eventuale esperienza elettorale. O cultura e politica si sviluppano insieme e si nutrono reciprocamente o sono entrambe sterili e vuote.

Perché «cittàcomune». Occorre ridefinire la politica: nel suo legame con le trasformazioni socio-economiche e l’industria mediatico-culturale, dentro quella mondializzazione dei rapporti tra gli uomini (ibrido di omologazione e drammatiche diseguaglianze), che è lo sfondo reale della vita di tutti e di ciascuno. Senza dimenticare - tra movimenti e istituzioni, società civile e stato: anch’essi da analizzare nella loro mututa dialettica – di individuare l’ambito entro cui si concreti, a partire dalla realtà cittadina in cui viviamo, la responsabilità personale. È un impegno pratico: come altri prima di noi, proponiamo di sottrarci alla necessità e inevitabilità dello stato di cose presenti. La verità non è inevitabile, ha scritto una volta Fortini, e neppure necessaria, ma “tutta la storia dell’occidente moderno è storia di individui e di minoranze che decidono di non servire all’inevitabile, al necessario”. Non possiamo fornire garanzie di sorta,  tantomeno di facile successo: semplicemente ci proponiamo di restringere la forbice tra com’è e come dovrebbe essere, tra come siamo e come potremmo diventare. Per essere meno soli, meno inutili, meno infelici. Chiamiamo questa proposta di ripensare e praticare di nuovo modalità di impegno volontario e collettivo – che estendiamo a chiunque sia interessato – associazione politico culturale «cittàcomune».

«cittàcomune»: che cosa. L'Associazione politico-culturale «cittàcomune» si propone nei prossimi anni di fornire il suo contributo: 1. alla vita politica cittadina e alle fondamentali scelte amministrative, interloquendo in modo critico con movimenti, partiti, singoli esponenti operanti nelle istituzioni, sempre anteponendo problemi e scelte concreti alle apparenze, il bene pubblico agli interessi particolari, la corresponsabilizzazione dei cittadini al decisionismo autoreferenziale;  2.  alla ricerca sul campo, alla riflessione teorica, al dibattito culturale, nella convinzione che l’analisi critica del presente non possa emergere dal susseguirsi delle mode e dalle finte baruffe culturali, cioè eludendo il rapporto con la  propria tradizione (italiana, europea, occidentale in senso lato), che è premessa di ogni auspicabile confronto con altre culture e civiltà; 3. a suscitare nelle giovani generazioni l’esigenza di non superficiali orizzonti culturali e morali la fine delle ideologie non come autoliquidazione ideale, ma come punto di partenza per un impegno da rinnovare: come aveva capito il materialista storico Antonio Gramsci, “ l’uomo è soprattutto spirito ”, e senza idealità mortifica la parte migliore di sé.

«cittàcomune»: come. Il come fare non è meno importante del cosa fare, le modalità di elaborazione e concreta attuazione possono inverare i buoni programmi o al contrario vanificarli, i mezzi prefigurano il fine. A partire da tali convinzioni, «cittàcomune», libera associazione autofinanziata e autogestita dai suoi fondatori ed aderenti, opererà legando il momento della ricerca a quelli della discussione e della concreta attività. Ci sforzeremo di evitare il cristallizzarsi di ruoli dirigenti, la separazione tra funzioni ideativo-creative e altre e altre meramente esecutive, favorendo la crescita e l’assunzione di responsabilità dei più giovani. Nell’apprestarci a far seguire alle presenti premesse politico-culturali l’adozione di uno Statuto (coerente con la legislazione vigente, ma il più possibile snello quanto a condizionamenti ed adempimenti burocratici),  non ci sembra inutile ribadire, a mo’ di sintesi, che esso potrebbe recare in epigrafe il seguente motto:

Non dominare né essere dominati, non ingannare né essere ingannati”

Piacenza, dicembre 2006

 

Ettore Arbasi, Cinzia Astorri, Piergiorgio Bellocchio, Gianni Bernardini, Susanna Bertoli, Livio Boselli, Giovanni Callegari, Paolo Colagrande, Serena Contardi, Daniela Cremona, Gianni D’Amo, Sergio Ferri, Massimo Gardani, Mario Giacomazzi, Guido Lavelli, Maurizio Mori, Paola Percivalle, Livio Quagliata, Adriano Rizzi, Giuseppe Rubinetti, Marco Salami, Francesco Serio, Roberto Tonelli, Silvana Trucchi, Alessandro Zucchi, Lara Zaghi

 


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