La coerenza difficile. Ricordo di Paolo BelizziGianni D’Amo
1. Piccola storia di questo libro. Quando questo volumetto uscì per la prima volta, nel 1983, alla fine di un’estate caldissima, l’intenzione, implicita nel titolo ed esplicitata nella dedica, di rendere omaggio alle donne che gli erano state vicine per lunghi decenni (le sorelle Marcilla e Luisa prima, la moglie Elda poi: “quelle che non fanno storia”) non era di maniera. Paolo, ormai più vicino agli ottanta che ai settanta, sentiva probabilmente l’esigenza di mettere ordine nelle vicende della sua vita e fornire pubblica testimonianza di quello che gli doveva sembrare un debito di riconoscenza non pienamente onorato. Voleva fare un regalo e una sorpresa ad Elda, delle tre l’unica ancora in vita, e allora piuttosto in salute. Per questo il manoscritto (un block notes a quadretti di quelli grandi, che Daniela Cremona ed io trascrivemmo poi a macchina predisponendolo per la composizione tipografica) cresceva in segreto, al riparo di sguardi famigliari in questo caso considerati indiscreti, nel protettivo silenzio della Vignazza (presso l’azienda agricola Tadini di Gariga, dove Belizzi ebbe il suo ultimo laboratorio di falegname provetto). Fino alla stampa era e doveva rimanere un segreto: se durante i nostri “incontri letterari” si sentiva arrivare un’auto (poteva essere la figlia Lina con Elda, o il nipote Stefano col padre Carlo e la sorellina Paola), in un batter d’occhio il block notes scompariva dal tavolone di falegnameria che fungeva da scrittoio per finire nella sottostante cassettina dei “segreti politico-culturali”. Il manoscritto tornava a far compagnia a foto e vecchi ritagli di giornale, copie del settimanale leninista “nuova unità” o del mensile anarchico “umanità nuova”, libretti d’opera, opuscoli dell’Associazione per la libertà religiosa in Italia. Solo una volta stampato, con in copertina i bei disegni voluti dallo stesso Belizzi, prontamente accontentato dall’amico pittore Bruno Sichel, il libro fu “presentato” alla destinataria Elda ed integralmente letto a voce alta in una riunione famigliar-conviviale, sempre alla Vignazza, nella stanza buona (o anche “salone delle cerimonie”), che affiancava laboratorio e casetta-cuccia dei cani da tartufo. Paolo sarebbe morto, sereno, tre anni dopo, nell’autunno del 1986. La sua scomparsa rende questa memoria scritta per così dire riepilogativa: un piccolo testamento umano e politico. La sua ristampa oggi, nel Sessantesimo della Liberazione, arricchita della bella testimonianza di don Bruschi, l’amico e compagno di oltre mezzo secolo, mi autorizza ad ampliare la breve nota con cui avevo presentato la prima edizione, oltre vent’anni fa; e mi spinge a fornire testimonianza della parte conclusiva della vita e dell’impegno di Belizzi, dalla metà degli anni Settanta in poi, il periodo in cui ci siamo conosciuti e assiduamente frequentati. Con due preliminari precisazioni. La prima. Io non sono in grado di farlo, ma penso che si dovrebbe scrivere la “storia di un’amicizia”: quella, appunto, di due lustri, tra l’energico, polemico pretino di montagna e l’anarco-comunista falegname di pianura (so che Paolo e don Giovanni ne sarebbero stati lietissimi: chiunque li abbia potuti frequentare insieme, sia pur in modo estremamente episodico come è capitato a me, restava immediatamente contagiato: veniva voglia di avere ed essere amici). La seconda, quasi superflua ma doverosa, è che non sono uno storico, e dunque rinvio senz’altro il lettore, desideroso di collocare in una cornice più ampia alcune delle vicende qui rievocate, ad altre fonti. Per quanto riguarda la Resistenza piacentina, mi permetto di suggerirne due: il libro di Anna Chiapponi (Piacenza nella lotta di Liberazione, Tipografia editrice Nazionale, 1976), che reca traccia, in molte pagine, dell’amicizia e del costante sostegno al lavoro dell’autrice da parte dello stesso Belizzi; quello assai più recente di Mirco Dondi (La Resistenza tra unità e conflitto, Bruno Mondadori, 2004), che è pienamente coerente con ciò che preannuncia nel sottotitolo (il che non è poco): analizzare le “vicende parallele tra dimensione nazionale e realtà piacentina”. 2. L’apprendistato lavorativo e politico, la scelta. Paolo Belizzi - «mi misero il nome Aldo, ma mi chiamavano Paolo» - nasce all’inizio del Novecento, penultimo di sette figli di una famiglia contadina, in Comune di Podenzano. Il padre è terzadro, la madre dedita alle onerose faccende domestiche non meno che al lavoro dei campi (unica pausa in una vita di privazioni e fatica, la recita serale del rosario). La prospettiva di abbandonare l’ingrata condizione contadina e approdare in città costituisce (e in larghe parti d’Italia costituirà ancora per molto tempo) un obiettivo ed un rilevante passo avanti nelle condizioni di vita e lavoro. I Belizzi si trasferiscono da Podenzano a Sant’Antonio e poi all’Infrangibile. I fratelli sono operai, una delle sorelle farà la sarta, la primogenita Marcilla affiancherà mamma Marietta nella conduzione della casa. Il giovanissmo Paolo è avviato al lavoro di falegname: dodici ore al giorno in una laboratorio di Sant’Antonio. Il suo apprendistato lavorativo umano politico-morale si concreta negli anni immediatamente successivi all’enorme e insensata tragedia della Grande guerra, tra biennio rosso e nascente fascismo. Belizzi ricorda il suo primo padrone di bottega, già “buon socialista”, ora impegnato (di nascosto) a sostenere la nascita del Fascio di Sant’Antonio (ricorda anche, però, che i figli «Pino e Cesare erano bravi falegnami, specialmente Pino», da cui egli apprese a lavorare bene il legno con i sistemi tradizionali). «Nonostante la mia giovane età, cominciai a odiare chi faceva il doppio gioco, anche se non ero in grado di valutare chi avesse torto. Capivo però che era una vigliaccheria tenere il piede in due scarpe. Per conto mio, date le condizioni della famiglia da cui provenivo, non potevo che stare dalla parte dei poveri e quindi a sinistra». Mi rendo conto solo oggi, che la inequivoca e lapidaria conclusione del discorso - la scelta della propria parte a sinistra, nel campo proletario e perciò antifascista: una lettura non certo priva di fondamento, ma anche semplicistico e consolidato luogo comune “marxista” - mi ha a lungo fatto sottovalutare le affermazioni che la precedono («Comiciai a odiare chi faceva il doppio gioco … capivo che era una vigliaccheria tenere il piede in due scarpe…»). Si direbbe che Belizzi abbia incontrato, riconosciuto e istintivamente avversato il nascente fascismo anche e in prima battuta come trasformismo furbesco e un po’ cialtrone, tipicamente italiano: il fascismo non come dittatura terrroristica del grande capitale, non frattura e sciagurata parentesi nell’esperienza dell’Italia liberale, ma autobiografia della nazione, secondo la scomoda e inquietante formula gobettiana. Sin dall’inizio, cioè, il suo antifascismo si nutre di severità di giudizio morale, un tratto che caratterizzerà Belizzi in modo permanente. Da dove gli sia venuto un tale “affinamento” delle proprie capacità di giudizio e conseguente comportamento, non è facile dire. Certamente dovettero contribuire la bonarietà del padre e la serenità comunitaria della famiglia, non scontati nel contesto della durezza e diciamo pure della violenza dei rapporti agrari nei primi decenni del secolo scorso. Ma la vera palestra intellettuale di Belizzi, sorgente prima di un’autostima e nitidezza anche morale, rifugio sicuro in ogni momento della sua vita non proprio tranquilla, direi che sia stato il lavoro: rigore, precisione, perfezionamento delle abilità, riguardo ai tempi, curiosità e conoscenza dei materiali e degli attrezzi. Il rispetto e la cura di sé e delle cose, che si intrecciano con quelli delle persone, degli altri. Non ho mai sentito un giudizio di Belizzi, positivo o negativo che fosse, disancorato dal fare e dall’agire. Detestava sciatteria e improvvisazione, e non si accontentava delle belle parole. Belizzi scelse subito di essere “intero, non astuto” - integro, leale, non doppio - e dovette capire ben presto, credo, che la fedeltà alla propria parte non esclude, anzi implica, di essere critici e vigili sulle ragioni e i valori originarî, che tali restano solo se continuamente riverificati (rigenerati) nelle circostanze della vita, personale e collettiva. Sempre ben alla larga da quel “gattopardismo”, a tal punto costitutivo di questo paese, da sopravvivere ai crolli dei Muri e alla globalizzazione. 3. La coerenza difficile. Si abbraccia una causa, non meno di quanto la si incontri e subisca: si sceglie e si è scelti, un po’ te la cerchi, un po’ ti tocca. Per parecchio tempo mi era sembrato che il titolo dell’autobiografia di Giorgio Amendola, Una scelta di vita, sintetizzasse al meglio un programma di impegno politico morale e insieme esistenziale, al quale cercare di attenersi. Quando uscì il polemico Scelto dalla vita, di Paolo Robotti, altra autobiografia di un eminente antifascista storico (fortunosamente sopravvissuto alla repressione staliniana, dopo esser sfuggito a quella fascista: Robotti era il cognato di Togliatti, e come lui si trovava a Mosca negli anni Trenta), mi è capitato di ripensarci su. Si cerca di fare la cosa giusta, ma questa non si presenta mai come un bel frutto maturo, pronto ad essere colto. A volte si sceglie – si deve scegliere, cioè si è stretti – tra possibilità entrambe sgradevoli e sgradite. Belizzi lo imparò presto. Nel libro si tratteggia rapidamente la bella figura di Linda Rota, l’organizzatrice dello sciopero delle bottonaie piacentine nel 1930, poi fatta clandestinamente espatriare in Belgio dal Partito comunista (anche per proteggerla dalla possibile repressione mussoliniana), a svolgere attività di propaganda antifascista tra gli emigrati italiani. Paolo ricorda l’imbarazzo e il travaglio, nel doverle comunicare che, contrariamente alle promesse e aspettative, l’organizzazione clandestina del Partito comunista non era materialmente nelle condizioni di assicurare ulteriore sostegno allo sciopero. È sera tarda, al ritorno da un infruttuoso viaggio a Fiorenzuola e Parma (la prima tratta in bicicletta, la seconda in treno): «…mi serviva una risposta che fosse incoraggiante…venne fuori una pietosa bugia… Pieno di vergogna dentro di me, le dissi cose non vere (seguendo la prassi dei mestieranti politici)». Siamo nel 1930, il momento in cui, diceva Paolo quando se ne discuteva tra noi, «erano fascisti anche i sassi». Così prosegue il ricordo di Linda. «Quando tornò, nel 1946, ci incontrammo in federazione. … Il ritrovarmi l’ultimo del Partito comunista di Piacenza dovette colpirla molto sgradevolmente»: si direbbe quasi che il dispiacere di Belizzi concerna piuttosto la “brutta figura” (del partito, prima che sua) con la compagna dei tempi più bui, che il fatto in sé, accettato come naturale. Poco più avanti: «eravamo stati i primi…ma non eravamo dei leccascarpe, e questo bastò ad emarginarci» (si intende: dalla direzione del Pci piacentino appena dopo la Liberazione). Anche qui, il giudizio è lapidario. Come aveva già intravisto Max Weber seguendo tutt’altra via (quella degli studi sociologici), il moderno partito politico riproduce innanzitutto se stesso e incanala le spinte ideali e materiali originarie principalmente nella fedeltà all’apparato. Stando così le cose, non mi stupisce il progressivo allontanamento di Belizzi da un ruolo dirigente politico (scelto non meno che subìto, credo, comunque accettato), ma che nessuno del gruppo dell’antifascismo storico locale si ritrovi in una posizione di rilievo nel Pci piacentino dell’immediato dopoguerra, questo sì. Mi soffermo su questo punto con intenti tutt’altro che gratuitamente polemici. Al contrario penso, che il Pci togliattiano (direi fino a Berlinguer) abbia costituito sotto questo profilo una parziale eccezione rispetto alla “regola” weberiana: milioni di persone in Italia vi hanno potuto profondere le loro migliori energie per decenni, proprio perché alimentati da una crescita culturale e materiale che la comunità comunista sapeva produrre e redistribuire secondo criteri sociali e anche morali. Credo di poter affermare che Paolo Belizzi, comunista “irregolare” sin dai suoi esordi libertarî al seguito di Canzi, si sentì sempre parte di quella comunità, anche in anni non privi di amarezza e in momenti di aspra polemica. Riflettere onestamente su figure e vicende come quella di Belizzi, tuttavia, impone di interrogarsi su come avvenga che le buone cause esigano intelligente generosità e totale disinteresse dagli uomini che arruolano (i “mistici” di Pèguy, i “poeti” di cui parla Vittorio Foa ne Il cavallo e la torre), e poi, in circostanze mutate, producano e premino calcolo, spregiudicatezza, pseudofedeltà acritiche. Mi viene in mente che già Machiavelli distingueva tra tempi “impetuosi” e tempi “respettivi”, di fronte al cui alternarsi, la “fortuna” (la situazione oggettiva) esige uomini di diversa “virtù” (l’inclinazione di fondo): ma la presa d’atto che il problema venga da lontano, non lo elimina (e non è poi un gran consolazione). Una volta mi sono trovato con Paolo nel cortilino della Camera del Lavoro di Piacenza in via XXIV Maggio, che fino ai primi anni Settanta ospitava all’ultimo piano anche la federazione del Pci. Si guardava intorno: dal basso all’alto e ritorno, le facciate interne e quelle esterne, una due tre volte. Contava gli infissi e cercava di coglierne lo stato di conservazione. Li aveva fatti tutti lui, un lavoro come si deve, e ovviamente in perdita, secondo un costume comunista allora diffuso. Non era più casa sua, così mi parve di capire, ma era contento che quella casa ci fosse, e soddisfatto di aver contribuito a tirarla su. L’orgoglio del lavoro ben fatto si intrecciava in questo caso con una sorta di sommario bilancio politico, e per un momento fu triste (ripassava mentalmente la sua vita?). Devo dire che in una certa amarezza, che sia pur non di frequente faceva capolino in lui, non ho mai sentito una punta di risentimento, e meno che mai rancore. Belizzi scelse non solo la parte giusta, ma, aggiungerei, il modo giusto di starci: in prima fila di fronte alle responsabilità e agli oneri (l’attività cospirativa, il confino, l’isolamento, il carcere, i continui e tremendi rischi dell’organizzazione della Resistenza in città), lontano o allontanato, in disparte, ai margini, quando giunse il momento degli onori. Mettiamola così: non vi era portato. 4. Il Comitato antifascista militante e “l’altra storia”. Ho conosciuto Paolo Belizzi nei primi anni Settanta e ci siamo assiduamente frequentati per poco più di un decennio. Per Paolo fu quello conclusivo di una vita lunga, tanto operosa quanto ricca, che aveva attraversato tutto il secolo; io ero tra i venti e i trent’anni. Nel ’74, provenendo dalle esperienze del movimento studentesco e della sinistra extraparlamentare, demmo vita al Comitato antifascista militante (Cam): erano gli anni delle bombe fasciste e di Stato, da piazza Fontana a piazza della Loggia (e, come si sa, non ci si sarebbe fermati lì), e anche quelli del nascente terrorismo rosso, che noi sottovalutammo totalmente, almeno fino al rapimento di Moro e all’uccisione di Guido Rossa a Genova. Non eravamo volterriani: per noi dal: “la penso diversamente da te, ma mi batterò perché tu possa esprimere la tua opinione”, erano esclusi i fascisti. Le modalità erano quelle appena post-sessantottine, molte le assemblee e i cortei rumorosi. Contestavamo i comizi del Movimento sociale italiano, facevamo a botte coi giovani fascisti, spesso davanti al Liceo classico “Gioia”. Non credo lo rifarei, ma non me ne vergogno. Che volessimo mettere fuorilegge un partito con milioni di elettori, il Movimento sociale, raccogliendo 50mila firme autenticate sotto una “proposta di legge di iniziativa popolare”, questo sì oggi mi sembra ridicolo! (Per la verità, un sesto senso mi avvertiva già allora che qualcosa non andava; così adottavo la formula “al bando il Msi” invece della canonica “Msi fuorilegge”, suscitando l’ira degli altri leader extraparlamentari nostrani, ligi alle direttive milanesi e romane: a proposito, il Comitato antifascista militante è stato un organismo politico sostanzialmente piacentino, locale, e ciò mi sembra un punto a favore). Doveva essere per alcuni una sorta di coordinamento, di intergruppo, tra le diverse sigle dell’extra-sinistra, per altri, io tra questi, qualcosa di più e di diverso: il tentativo di stabilire un collegamento non strumentale (non elettorale, tanto per essere chiari) col movimento operaio. L’idea giusta ci sembrò contendergli il passato. La Resistenza, con la sua radicalità che traducevamo ingenuamente ed anche erroneamente nell’aggettivo “rossa”, pareva a noi lontanissima dalla unità indifferenziata del compromesso storico: non ci piaceva la formula, ancor meno le concrete pratiche quotidiane che se ne facevano derivare. Oggi penso che avevamo torto e ragione insieme. Anche se ancora non lo sapevo, cercavamo una tradizione, senza la quale non si vive il presente. La trovammo nelle persone – almeno per quel che mi riguarda - prima che nei libri. Innanzitutto in Belizzi: in rivolta coi padri, ci soccorsero i “nonni”. Paolo Belizzi era il nostro garante: la conferma, per noi e per chi già ci apprezzava, di vedere e di fare giusto; la carta di presentazione, soprattutto in provincia, presso chi ancora non ci conosceva o manteneva riserve, del resto fondate. Decine di amici e compagni, donne e uomini, molto maggiori di noi per età ed esperienza, cominciarono ad accompagnarci e sostenerci. Ripensare a Belizzi significa per me ripensare anche a loro. Vorrei sommariamente ricordare almeno alcuni di questi “maggiori”, così come mi vengono in mente: la signora Carla Gasperini (la madre del caduto Giorgio), l’avvocato Doro Lanza (il nostro oratore delle grandi occasioni), i compagni di Paolo della prima ora come Carlin Bernardelli e Emilio Cammi (anarchico), Franco Sezenna, Anna Chiapponi, Elda e Pina Buttafuoco, Pina Passerini (la staffetta Lucetta), i coniugi Agosti (lei, sorella del Valoroso, Lino Vescovi), Cesare Rabaiotti (il Moro, coi suoi compagni di Stradella). E poi Piero Cella, che ci ospitava alla Cooperativa Lupi per le riunioni più numerose, Nando Panelli (scampato ai Guselli e a Flossenburg), Andrea Molinaroli, Ilda Barbieri (Ilda la rossa). E Alberto Mondani di Biana, il maestro Pancera di Bettola, Mario Tacchini di Cortemaggiore, Gino Bongiorni di Pecorara, Andrea Cammarosano (il generale), i due presidenti dell’Anpi (in epoche tra loro lontane, e così diversi loro) con cui si discuteva animatamente, ma poi si trovava il punto d’accordo: Pipotto e Muro, Narducci e Muratori. E naturalmente don Bruschi. Belizzi me lo presentò in Piazza Cavalli, prima che salisse sul palco delle celebrazioni ufficiali, il 25 aprile del 1975. Da calendario, una giornata di festa, nella realtà anche di lutto e forte tensione: nella settimana precedente erano stati uccisi a Milano, il primo dai fascisti e il secondo da un gippone della polizia durante il conseguente corteo di protesta, i giovani antifascisti Claudio Varalli e Giannino Zibecchi. L’assassino di Varalli, il fascista Braggion, aveva trovato pronto rifugio a Lugano; di Zibecchi i giornali pubblicavano una foto con la materia cerebrale sul selciato, a fianco del corpo e della testa straziati, e l’osceno commento a caldo di un poliziotto: «non pensavo che il cervello di un comunista fosse così grosso». Le radio libere ne trasmettevamo la registrazione. Non ci sembrava un bel modo di “celebrare il trentesimo della Liberazione”. Consapevole che ci sarebbero state delle contestazioni, Paolo mi disse: «Gianni, bisogna far passare la voce di non fischiare don Giovanni. È un prete, ma è una brava persona e un grande combattente». Don Giovanni non fu fischiato, altri sì. Nel nostro Comitato, Belizzi si sottrasse subito al ruolo di “fiore all’ochiello” da esibire nelle cerimonie canoniche (anche noi avevamo le nostre liturgie, né eravamo del tutto immuni dall’uso strumentale degli intellettuali e dei personaggi prestigiosi, come Belizzi ci appariva ed era). Voleva partecipare, quando poteva, alle riunioni serali della segreteria nella fumosa sede in fondo a via Borghetto. Arrivava sempre in anticipo e si teneva un po’ distante dalla porta, nell’atteggiamento di chi passa di lì per caso. Se cinque minuti dopo le nove non era ancora arrivato nessuno, come qualche volta capitò, tornava a casa e alla prima occasione mi riprendeva aspramente: «Cosa volete fare dei comitati! Non sai che cinque minuti avanti o indietro sotto il fascismo potevano costare la vita?» Aveva profondamente introiettato il rigore del periodo della clandestinità. Certe precauzioni erano diventate per lui un automatismo, un secondo vestito. Imparammo presto ad essere puntuali. Paolo era sempre presente alle riunioni della commissione organizzazione (pomeridiane, queste: tesseramento, finanziamento, rapporti coi nuclei di zona e i gruppi in provincia), cominciò a conoscerci un po’ tutti. E a pesarci: era un grande osservatore, dotato di un’invidiabile capacità di giudizio, severo non meno che generoso. Proprio come le amate cagnette da tartufo che teneva alla Vignazza, Belizzi era dotato di notevole fiuto. Riconosceva prontamente i furbi, e non gli piacevano, neanche quelli della sinistra extraparlamentare degli anni Settanta. Per i citati motivi “cospirativi”, non amava gli elenchi di nomi e cognomi. Preferiva i soprannomi, di solito scelti per contrappasso. Per l’unico tra noi che, poco più che ventenne, già denuciava la prossima calvizie, ne aveva scelti addirittura due (e stavolta non posso proprio evitare il dialetto): “scatiòn” e “risulòn”. Nel libro Paolo sorvola su questo particolare, ma ci raccontava che quando fu arrestato nell’estate del ’30, esssendo sua massima preoccupazione di celare la rete cospirativa comunista (così tentando di evitare il Tribunale speciale), adottò sin dal primo interrogatorio la seguente tesi difensiva: «Sono andata dall’“Argentina” (un postribolo dell’epoca) e lì ho trovato uno che mi ha offerto duecento lire per andare a fare delle scritte antifasciste. Ne avevo bisogno e ho accettato. Non so altro, non conosco nessuno, non c’entro con la politica». In particolare, nei mesi di botte e torture prima di essere inviato al confino, aveva sempre negato di conoscere Carlin Bernardelli. Quando poi si incrociarono in un ufficio della Questura, e Carlin non seppe trattenersi dal buttargli commosso le braccia al collo, contento se non altro di rivederlo vivo, il commissario commentò: «Ah, e così voi due non vi conoscevate eh…» E Belizzi pronto: «Ah ma è lui Bernardelli? Non lo sapevo, non avevo mica capito, poteva dirmelo prima. Io l’ho sempre conosciuto come Brichetto». (Non a caso proprio così Paolo lo salutò per sempre, precedendolo Bernardelli nella morte, al termine della breve cerimonia funebre al cimitero di Piacenza: «Ciao Carlin, ciao Brichetto»). Dal 1976 Paolo Belizzi fu presidente del Cam, eletto dall’assemblea degli iscritti, che nei secondi anni Settanta erano centinaia. La sua presenza fu fondamentale per aiutarci nel lavoro di conoscenza e valorizzazione del passato che avevamo intrapreso. Riscoprimmo luoghi e figure della Resistenza piacentina trascurati, se non dimenticati. La “Veglia antifascista e partigiana” la sera del 24 aprile sulle gradinate del Liceo scientifico, dal 1975 al 1983, divenne una piccola tradizione; organizzammo la prima biciclettata al monumento di Lino Vescovi, a Monticello di Gazzola; nel ’77 una manifestazione a Peli di Coli, al monumento di Canzi, nel ’78 da Bersani (capitan Selva) a Tabiano. Queste ed altre iniziative, insieme alla pubblicazione del periodico “Antifascismo militante”, che diffondevamo in migliaia di copie, vennero a configurare una sorta di piccola storiografia parallela a quella ufficiale (alternativa o polemica: così almeno allora appariva). Un piccolo contributo a riesaminare qualche pagina, anche scomoda, “tra unità e conflitto”, certamente l’abbiamo dato. Io, per esempio, non avevo mai sentito parlare di Giovanni Molinari, fino alla sera in cui, alla prima delle Veglie sopracitate (24 aprile 1975), Mario Tacchini ricordò proprio a Belizzi il nostro dovere di non archiviarne la morte come quella di un “ladro di bestiame”, e l’impegno a «restituirgli l’onore politico». Molinari (soprannominato Piccoli in ragione della sua notevole statura e prestanza fisica, ricordava Belizzi) era stato un antifascista storico, come tutta la sua famiglia (di Fiorenzuola), confinato politico e poi tra i primi organizzatori della Resistenza a Bardi: spostatosi in alta Val Tidone ai confini con la Val Trebbia, nel giugno ’44 era stato ucciso con tre suoi uomini per ordine di Fausto Cossu, ufficiale dei Carabinieri, comandante di un’altra formazione partigiana, con giustificazioni infamanti e inverosimili. Oggi che a Piccoli è stato finalmente restituito il posto di rilievo che gli spetta nell’antifascismo e nella Resistenza piacentini (cfr. il già citato M. Dondi, La Resistenza tra unità e conflitto), mi piace ricordare come trent’anni fa, per impulso di Belizzi, facemmo la nostra piccola parte. Ne scrivemmo su “Antifascismo militante”, anche sulla base della preziosa testimonianza del maestro Chiappini di Borgonovo (cfr. P. Chiappini, La Resistenza nelle valli Trebbia, Tidone e Luretta, Piacenza, Vicolo del Pavone, 1986, che allora era ancora solo un manoscritto); ne discutemmo con la direttrice dell’Istituto storico della Resistenza, Severina Fontana; ne parlammo diverse volte, sempre presente Belizzi, con Gino Bongiorni e l’Anpi di Pecorara, a cui si deve l’iniziativa del monumento che ricorda Molinari e i suoi compagni alle Aie di Busseto. 5. La cellula della Vignazza. Paolo Belizzi ci consegna la sua testimonianza in questo libro umile e schivo, in cui riservatezza e pudore velano una pratica del bene ordinaria quotidiana normale, ma non perciò minore. Uomini semplici come lui e suo fratello Mario, Carlo Bernardelli, Guido Fava, Guglielmo Schiavi, Angelo Chiozza, Emilio Cammi ci insegnano che, quando è giusto, si può dire “no” anche se tutti dicono “sì”, che in ciò non soccorrono la nascita né la ricchezza o la cultura, e che ciò non accade invano. Nelle pagine di Belizzi e nella sua vita, le persone valgono di più delle idee, le formano e danno loro fondamento. Un tale criterio di giudizio si deve applicare anche a lui: e Belizzi valeva molto di più di quello che ha detto o scritto. Dato a Paolo quel che è di Paolo, non posso nè voglio esimermi, avviandomi a concludere, dal riferire brevemente dei nostri rapporti più personali, dall’accennare a quella che considero una delle amicizie davvero importanti della mia vita. In effetti, parallelamente a ciò che devo pur chiamare la comune militanza politica, con Paolo si creò presto una confidenza particolare, in qualche modo solo nostra, se non addirittura favorita, comunque non ostacolata dalla grande differenza di età. All’incirca una volta alla settimana si mangiava insieme alla Vignazza. Cucinava lui, su una stufetta a legna altrimenti utilizzata per le colle da legno: riso in bianco e olio crudo per sé, uova con le cipolle (meglio: cipolle con uova) per me. Pane e vino proprio buoni. Mi accoglieva sulla porta sentendo arrivare l’auto, quasi sempre con lo stesso invito, formulato in dialetto: «Gianni contami qualcosa di bello». Intendeva riferirsi al “nostro movimento”, come lo chiamava, ma anche alla persona mia e di chi mi era vicino, e alle nostre vite. Era preoccupato che non studiassimo abbastanza, che non pensassimo a un futuro professionale, insomma che ci buttassimo un po’ troppo a capofitto e scriteriatamente nella causa. Così, “qualcosa di bello” poteva essere sia la riuscita di un’assemblea studentesca, quanto l’aver sostenuto con profitto un esame all’Università. Se poi per caso arrivava un terzo (un altro compagno del Cam, o anche suo nipote, almeno da quando aveva cominciato a frequentare il liceo), Paolo ne prendeva atto con queste parole: «siamo in tre, possiamo fare una cellula, la cellula della Vignazza». Mi colpì allora e mi ha sempre profondamente commosso il sùbito affetto nei confronti miei (e di altri giovani compagne e compagni) da parte dei suoi famigliari: di Elda, della cognata Pina, della figlia col marito e i nipoti. Io ero inizialmente, nei loro confronti, piuttosto cauto e sulla difensiva, percepivo qualche riserva sul nostro estremismo, sia di tipo politico (ma capivo anche che non era questo il punto fondamentale), sia perché coinvolgevamo Paolo in situazioni non sempre del tutto tranquille e tranquillizzanti: era comunque un settantenne con sulle spalle un grave problema renale. Mi sarei aspettato, se non una diffidenza ostile, perlomeno qualche cautela. Invece, la porta di casa Belizzi in via don Minzoni per me fu immediatamente - e restò sempre - aperta, la tavola sempre pronta (ed Elda era davvero una notevole cuoca). “Dare il meglio per nulla!”: mi pare questo l’ideale pratico di Belizzi, ciò di cui rende merito, in queste pagine senza pretese, alle donne che lo hanno accompagnato nella vita e nella lotta: Marcilla, Luisa, Elda, Linda. E se mi interrogo oggi su cosa quest’uomo severo e mite, non privo di un tratto signorile, abbia potuto trovare nella decennale frequentazione del nostro gruppo di giovani scapestrati, vorrei rispondere: quello che cercava. Qua e là, ogni tanto, a piccole dosi, almeno l’eco dell’antica generosità che dava senso alla sua vita. Aprile 2005 Gianni D’Amo
Prefazione a: Paolo Belizzi, Quelle che non fanno storia. Pagine della cospirazione antifascista a Piacenza, Editrice Vicolo del Pavone, 2005 |
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